Friday, April 23, 2010

La sorgiva



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la sorgiva che dalle bocche in piazza delle undici
si fa gazzetta fra le gambe delle donne
dalla cucina al duomo come faglie

aperte alla destra del colmo moltiplica lo spazio
del vedere ad ogni passo che la natica feconda
rimescola il sangue......... in basso

la linea glabra delle voci con garibaldi nel tondo
e attorno le nostre anite ai tavoli che sparlano
di quell’andare ladro

di questa torba salda ai vicoli da secoli
come nel fiume l’incavo sabbioso o il lasco
che la città concede

 
Caro Xxxx,
 
su la “sorgiva”: immagina una donna seducente che sale le scale del duomo paesano, per andare alla messa delle “undici” e, nella piazza sottostante, immagina i maschi seduti fuori dal bar con le loro fidanzate (le loro “anite”, loro che sono i “Garibaldi” della situazione, eroi della domenica mattina, con il loro aperitivo sul tavolino). Anite e Garibaldi (anche se il vero Garibaldi è un bassorilievo “tondo” collocato ai margini della piazza) “sparlano” di quella donna (del suo “andare ladro” perché ruba sguardi e commenti), ma anche della “torba salda ai vicoli da secoli”, ossia della melma che li imprigiona al mondo produttivo. In fondo, questo guardare ed essere guardati, è un dei pochi “laschi” (libertà) che una piccola città concede (fuori dal lavoro e dagli altri obblighi). La sorgiva, dunque, è l’acquolina che viene ai maschi quando guardano la donna salire i gradini, acquolina che diventa chiacchiera (“gazzetta”) sul suo ancheggiare. Come vedi, c’è molto realismo in tutto questo. Nessuna allusione volgare. Semmai, volgare è il tempo del lavoro, qui nel nord-est, che toglie la capacità di pensare alle persone, riducendole a cani da salivazione (come negli esperimenti di Pavlov).

Wednesday, April 07, 2010

Una lettera a Giovanni Tuzet (2008)


Caro Giovanni, finalmente rispondo alle tue osservazioni in merito alla scrittura de La distanza immedicata.

Intanto mi fa piacere che tu abbia colto il passo jazzistico dei testi, il loro procedere volutamente ad orecchio pur entro un’orchestrazione unitaria, se non altro perché tutta giocata entro l’allegoria del fiume, anzi dei fiumi, al plurale, giacché ogni quadro mette in scena una fisiologia differente, con differente uso della scrittura.

Per quanto riguarda la questione oracolare: la mia formazione heideggeriana in qualche modo non può non influenzare la mia scrittura, anche se la declinazione data da Nancy all’ontologia ermeneutica (filosofo che prediligo), credo possa aiutarmi a superare la radice religiosa del pensiero heideggeriano. Resta il fatto che io concepisco la scrittura poetica quale soglia fra il visibile e l’invisibile, tra la luce e l’ombra eccetera, per cui la piena luce frontale del visibile (della logica, dell’apparire) la trovo assai più metafisica che la scelta, la mia, di muovermi su di un confine dove l’oscuro non è voce del divino, bensì la sostanza dell’umano, che va cercata, ascoltata, fatta essere attraverso immagini eloquenti e mobili. Ovviamente, e come ben sai, la poesia italiana oggi si muove su più fronti e tutti legittimi (purché fondati su qualche buona idea). Chiaro che una poesia accessibile a tutti (poesia di massa?) è un sogno ancestrale; il fatto però che “tutti” sia una categoria universale che toglie di mezzo “ciascuno”, mi fa essere prudente. Oltretutto, se la cultura di massa ha prodotto un gusto standard - verificabile continuamente, nel quotidiano - un gusto mediocre, an-estetico e anestetizzato, difficilissimo pensare che cosa significhi una poesia “non-oscura”, laddove lo standard non prevede la tridimensionalità del vedere, del sentire e “il profondo” si riduce al uno sfondo già masticato e meditato dai media. Come ben capisci la questione andrebbe affrontata in ben altri spazi. Ad ogni modo, per rispondere direttamente alle questioni che poni:

l’ossimoro futuro già stato, in effetti, non è straordinario, ma mi piaceva che aprisse il libro, così da sottolineare la natura postuma (post-agonia) di ciò che viene raccontato;

Le complicazioni (finale p.33): quel finale è concitato perché vuole produrre nel lettore l’effetto reale del “poco giro d’aria”, ossia trasmettergli un sensazione di fatica, di ansia. E’ insomma uno stratagemma retorico per rendere fisica una sensazione altrimenti leggibile soltanto come concetto.

I pedali del Novecento sono pedali del presente, credo; anche perché da Saba a Sanguineti i pedali sono parecchi. “In riva ai nomi”, fra l’altro, riprende una metaforicità cara ad Edmond Jabès, che è un autore che amo particolarmente.

Ti ringrazio nuovamente per le osservazioni: cercherò di tenerne conto per quel che la mia natura me lo permette.

Un caro abbraccio

stefano



Giovanni Tuzet (Ferrara, 1972) ha pubblicato tre raccolte di poesia, allcune sillogi in differenti antologie e la raccolta di saggi A regola d’arte (Este Edition, Ferrara, 2007). Inoltre ha curato il volume Simboli in versi (Editreg, Trieste, 2004) e il n. 50 di “Atelier” (2008) dedicato a poesia e conoscenza. È redattore di “Atelier” e di “Argo”., collabora con “Pendragon”. Conferenziere sul tema arte e scienza, da segnalare nel 2005 a Ferrara l'importanate conferenza Poesia e Scienza. Ha curato nel 2003 (a cura del Comune di Cento), una serata dedicata al Movimento Futurista, con i futuristi R.Guerra e Sergio Fortini e il celebre poeta sonora Enzo Minarelli. Ha partecipato anche come writers e collaudatore via video alle anteprime del centenario futurista svoltesi a Ferrara nel 2007 (Futurismo Renaissance) e nel 2008 (sezione futurista in The Scientist 2008 Video Festival – Futurismo 100 Marinetti) a cura dell'Associazione Ferrara Video&Arte. Nel 2006 ha presentato a Ferrara il futurista R.Guerra, da cui un manifesto futurista intitolato 10 Cartucce per Rinascere.
Laureato in Giurisprudenza all’Università di Ferrara, insegna Filosofia del diritto presso l’Università Bocconi di Milano.